Pardo Fornaciari presenta: “Robespierre ed il livornese”

Pardo Fornaciari, grande musicista livornese, comincia così con CliccaLivorno.it un ciclo di articoli dedicati a Giuseppe Maria Cambini, Robespierre e sopratutto al loro legame con Livorno.

Con questo articolo introduttivo andiamo a presentarvi Pardo, mentre con i prossimi entreremo dentro all’argomento storico ed unico con anche dei video direttamente dal nostro canale (da noi ripresi) durante la conferenza tenutasi ai granai di Villa Mimbelli nel febbraio 2016.

Qualche parola per introdurre il tutto.

Per canto popolare si intende qualcosa di molto elastico, per non dire impreciso. Una qualsiasi canzone che segua particolari stilemi di rima ritmo melodia, sia essa religiosa, narrativa, d’amore, giocosa, di lavoro, di protesta o infine più strettamente politica, non è detto che sia popolare.

Ossia, non è detto che sia così diffusa tra il popolo: anche perché il concetto e l’immagine di popolo sono assai variabili, secondo le epoche ed i luoghi.

Proviamo a fare qualche esempio. Un canto religioso innalzato in processioni che si tengono a date fisse scandite dalle esigenze liturgiche sarà considerato popolare da chi lo intona, e da chi lo ascolta condividendone il messaggio. Ma chi sente dentro di sé urgere il desiderio anzi la forza di un riscatto concreto delle umane sofferenze, da lenire ed anzi risolvere nell’avvenire storico, e non in una prospettiva millenaristica, escatologica, da rinviare ad un futuro senza data, considererà quel salmodiare misticheggiante alla stregua di una ignobile turlupinatura di coscienze deboli o quanto meno irrazionali, ed anzi, tutte e due le cose, subornate da una casta sacerdotale che difende i propri privilegi, talvolta ignobili, comunque generalmente compromessi col potere politico. Emblemi di speranza fallaci quanto si voglia: ma vi sono masse popolari religiosamente raccolte attorno ad essi che vi credono in maniera inossidabile, e giudicano pericolosi e demoniaci giudizi critici che pretendano di mettere in crisi le loro certezze. Chi poi si permette di attaccarle o dileggiarle rischia grosso; per fortuna, dalla Rivoluzione Francese in poi, nelle società costituitesi sulla base della cristianizzazione del continente europeo dapprima, e delle parti del mondo conquistate e colonizzate dagli europei, in genere la potenza micidiale del connubio tra trono ed altare è andata riducendosi drasticamente. Non del tutto, e non in modo omogeneo, giacché l’intolleranza desiderosa di riaccendere i roghi è sempre lì dietro l’angolo pronta a riapparire sinistramente, come più volte accaduto nel Novecento. Ma complessivamente dall’avvento generalizzato dei principi di tolleranza uguaglianza e libertà di coscienza prima ancora che politica i cumulonembi dell’oscurantismo religioso si tengono a bada, addirittura da sé stessi.

È stato merito del cataclisma storico che ha avuto tra i suoi emblemi la bandiera rossa: la Rivoluzione Francese.

 

Che cos’è il Canto sociale

Penso che sia importante delimitare ulteriormente il campo di questa riflessione. Ermolao Rubieri – ripreso da Gramsci – distingueva i canti popolari in composizioni scritte per il popolo, e quelle prodotte dal popolo.

Ma in realtà questa seconda categoria, il canto “popolare” in sé e per sé, quello insomma scritto, o meglio composto dal popolo per se stesso, è qualcosa di quasi inesistente.

Di solito i canti che nella storia d’Italia riconosciamo come popolari sono scritti per il popolo, ma da cantori dotti, che si elevano di almeno un gradino al di sopra della massa degli ignoranti, degli analfabeti abbrutiti da un lavoro da schiavi. Il popolo che “gioie non ha”, come canta un inno anarchico, o “la canaglia pezzente… chi suda e lavora” (parole di una canto comunista) hanno a malapena il tempo per ascoltare e sognare: non per produrre testi originali, musicali e poetici. Altri poi sono testi canori, in genere musicali, che il popolo adotta e magari rielabora, ma che non sono scritti né da lui né per lui.

Quando 50 anni fa e più assieme a due amiche con cui continuo a cantare (Marinò Zocchi e Maria Torrigiani) mi impegolai nel canto popolare, sull’onda del successo degli spettacoli politici cantati Bella Ciao (1964) e poi Ci ragiono e canto (1966) le cose non eran così chiare come si sono andate precisando via via. Il canto popolare era qualcosa che avevano nella testa i ricercatori \ cantautori come i Cantacronache torinesi Fausto Amodei, Michele Straniero e Margot (ma anche i milanesi Gufi, con la riscoperta della canzone anarchica da osteria) e quindi Ivan Della Mea e Giovanna Marini e giù giù fino ad Alfredo Bandelli, Pino Masi ed alla generazione degli anni Settanta (Ezio Del Re, Marco Chiavistrelli). Bisogna anche ammettere che dal punto di vista dell’ambito di ricerca e produzione canora le cose eran fortemente influenzate dalla situazione sociopolitica dell’Italia di allora: dal 1968 in poi si susseguirono dodici anni di lotte sociali massicce ed ininterrotte, su cui si innestò la rovinosa stagione della lotta armata.

 

Scambiavamo per canto popolare una cosa diversa

Un aneddoto. Negli anni Settanta del secolo passato, in una bettola dove si riunivano operai del Cantiere navale di Livorno nell’intervallo del pranzo, capitammo sul discorso. Intonai una filastrocca che mi ero inventata giorni prima: La barca del padrone – ci ha un buco nella chiglia – è ridotta un colapasta – è lì lì per affondà, etc.. Si trattava di un contrafactum, o centone, o cover sull’aria della filastrocca per bimbi La macchina del capo – ha un buco nella gomma. Ilcontrafactum è una forma usuale di costruzione della canzone nel nostro caso, sociale (ma funziona per ogni tipologia canora), non solo di quell’epoca, ma anche dei tempi precedenti e successivi, che funziona così: si prende una melodia conosciuta, e ci si applica un testo nuovo. 

Nel mio proposito doveva essere un canto politico e di protesta e quindi popolare, secondo quello che avevamo in mente allora, noi sognatori di una palingenesi che non è arrivata mai. Ma un metalmeccanico dalla bellissima voce intonò Mamma e poi Miniera, sbeffeggiandomi: «Queste sono le canzoni che piacciono al popolo, quelle che al popolo piace sentire!». Immaginarsi la mia frustrazione…

Ecco, per sistematizzare questa elementare costatazione in un quadro di riferimento coerente mi c’è voluto qualche anno, la frequentazione con autori opere e ricerche, da Niccolò Tommaseo a Costantino Nigra, da Alessandro d’Ancona fino al texano Alan Lomax, allacciandomi quanto meno idealmente alla grande tradizione della seconda metà del secolo scorso impersonata nel Canzoniere Italiano e nell’Istituto Ernesto de Martino, da Gianni Bosio e Roberto Leydi, fino a Caterina Bueno da un lato e Giovanna Marini dall’altro.

Per fortuna sull’argomento specifico del nostro discorso qualcosa di finalmente definitivo l’ha detto e scritto Cesare Bermani: il canto popolare è una cosa, il canto sociale è un’altra. Per intendersi meglio, il canto sociale va inteso come un sottoinsieme del canto popolare.

Canto popolare sono le ninne nanne, le filastrocche, i girotondi tràditi oralmente nell’ambiente familiare infantile scolastico di base; un gradino più sopra, le ballate narrative, d’amore e morte in genere, composte da cantastorie, di cui ci si appropria a veglia, e che circolano anch’esse oralmente, fino alla rivoluzione del Novecento, dal fonografo alla radio, dalla TV ad internet.

Prima ancora son canto popolare le litanie di chiesa, i canti processionali, scritti anch’essi da autori dotti, un gradino più su ancora dei cantastorie; un gradino più in basso ci sono le cantilene di richiamo di venditori ed imbonitori da fiera, che talvolta evolvono in canzoncine vere e proprie, e sono le anticipazioni di quelli che poi diverranno i cori da stadio. Quando però si passa ai canti di lavoro, ecco le cose mutare, nel valore semantico quanto meno, poiché musicalmente parlando, si tratta, per tutto un periodo e nella stragrande maggioranza dei casi, di contrafacta. Sul canto di lavoro si innesta il lamento per le condizioni miserabili di vita; la lamentela divien gradatamente protesta e quindi proposta politica. L’insieme del canto sociale è composto da canti di lavoro, di protesta, di rivolta; spesso incrociando il canto patriottico e\o militare, diviene canto di resistenza e di rivoluzione.

 

Il canto sociale a Livorno

Questo paradigma del canto sociale è verificato in ogni situazione sociale e linguistica e territoriale. Non sfugge quella livornese in cui agiscono infatti tutti gli stimoli del canto popolare dal canto di protesta al canto di lavoro, per quanto dimostrano le nostre ricerche, quanto meno dal 1794 in avanti, dall’epoca delle grandi speranze aperte dalla rivoluzione francese. Per esempio, all’Archivio di Stato di Livorno – nei resoconti della polizia – sono stati ritrovati i verbali degli interrogatori fatti nel 1794 a quattro giovani che erano stati arrestati con l’accusa di aver cantato canzoni rivoluzionarie all’Osteria dei Greci. Erano un garzone di macellaio, e tre manovali non qualificati (“disponibili al bisogno di chi li paga”, scriveva il poliziotto che li interroga). Con le domande e risposte degli accusati, appaiono i testi delle canzoni.

Ecco tra l’altro che cosa cantavano, questi quattro operai analfabeti, che aspettavano dalla Francia, dove tagliavan la testa a nobili e a padroni, la vendetta delle proprie sofferenze:

Madame Verteau avez promis

de faire corgée tout Paris

Madame Toilette avez resolu

E non fait tonner sor cou

Non so la Carmagnola, vive le so’ vive le so’

non so la Carmagnola, dican no di cannò

 

Così si trovava scritto nei verbali di polizia: sublime sequenza che faceva diventare Maria Antonietta (Marie Antoinette, regina di Francia)… Madame Toilette, ossia la Signora Gabinetto. La canzone che i parigini cantavano ballando nelle giornate del Gran Terrore invece diceva:

Madame Véto avait promis

de faire égorger tout Paris

Marie Antoinette avait resolu

de nous faire tomber sur le cul

Chantons la Carmagnole, vive le son, vive le son

dansons la Carmagnole, vive le son du canon.

 

La regina, ghigliottinata come il marito Luigi XVI l’anno prima, era odiatissima dal popolo parigino, che la chiamava con disprezzo “la Tedesca”. Con maggior coscienza politica, i sanculotti la chiamavano anche “signora Veto”, per il veto che soleva mettere su ogni provvedimento le dispiacesse, specie quelli umanitari. Di lei si vociferava lei che avesse detto che il popolo che protestava per la fame, se non aveva pane, poteva mangiar brioscia. Per questo l’insulto postumo dei quattro proletari livornesi che la chiamaron “signora gabinetto” non ci scandalizza troppo, anzi, ci diverte, anche se un po’ impietosamente. I nostri quattro antenati politici di oltre 200 anni fa furono comunque condannati ad essere esiliati dal Granducato, dopo otto giorni di carcere duro. Come sempre, né questa né altre misure repressive bastarono a fermare la rivoluzione: dopo tre anni, l’albero della libertà fu eretto in Piazza Grande a Livorno:

 

E semo livornesi

dentro di noi c’è l’osso

viva il berretto rosso

viva la libertà

 

Ci semo nella rete

per colpa de’ signori

questi traditori

gli si farà vede’

Era la temperie generale che si respirava in una città dai costumi liberi, retta da leggi speciali tolleranti, insofferente di lacci e prevaricazioni di poteri civili e religiosi. Livorno, la città dove nasce e si forma Giuseppe Maria Cambini.

Giuseppe Maria Cambini, il musicista di Robespierre

Più o meno contemporaneamente alla repressione granducale, a mille chilometri di distanza un altro livornese veniva incaricato dal Comité de Salut Public di musicare una serie di inni e canti rivoluzionari adatti a forgiare la coscienza del nuovo citoyen dopo l’abbattimento della monarchia, la proclamazione della Repubblica e le convulsioni rivoluzionarie che dovevano portare a seppellire l’Ancien Régime edificando sulle sue rovine un mondo nuovo. La Rivoluzione aveva bisogno di riferimenti ideali da comunicare al popolo, per educarne le masse: lo strumento migliore e più sperimentato fu identificato nel canto corale. Se l’intuizione generale fu di Massimiliano Robespierre, l’Incorruttibile, la decisione finale fu di Bertrand Barère de Vieuzac, commissario all’istruzione pubblica e le arti, ideatore delle grandi celebrazioni per gli emblemi rivoluzionari della Libertà, dell’Uguaglianza, della Virtù. In queste manifestazioni imponenti masse di centinaia di coristi all’unisono con fanfare di ottoni, talvolta corroborate da organi che non diffondevano più musica di chiesa, intonarono le composizioni di Desorgues, Gossec e, sopratutto, Joseph-Marie Cambini, ossia Giuseppe Maria Giovacchino Cambini. Nato a Livorno il 13 febbraio 1746, dove visse i primi 17 anni della propria esistenza, per recarsi quindi a studiare a Bologna e quindi a Napoli, si trasferì definitivamente a Parigi nel 1770. Durante e dopo il Gran Terrore, Cambini è uno dei musicisti di punta della Rivoluzione. La sua produzione nel campo del canto sociale, poco conosciuta in Italia, è conservata in Francia presso la Bibliothèque Nationale Mitterrand di Parigi, dove sono state identificate nove composizioni (cinque Inni, due Odi, un girotondo ed un canto di guerra) le cui partiture sono state fotocopiate e sono oggi in attesa di pubblicazione. Si ha notizia peraltro di un’altra mezza dozzina di canti, non ancora identificati, probabilmente rintracciabili con un lavoro di ricerca più approfondito a partire dalle biblioteche di Francia.

Più conosciute e pubblicate sono invece le composizioni rivoluzionarie strumentali, come leVariazioni per Flauto sulla Marsigliese e la Carmagnola ripubblicate nel Novecento e reperibili anche nella Biblioteca dell’Istituto Mascagni mentre le Sei arie patriottiche con variazioni per due violini reperite a Parigi attendono tutt’ora anch’esse, come i canti, l’edizione e la pubblicazione.

Iniziamo con l’ Inno alla Libertà. Per nulla poetico nei suoi slanci di lirismo, esso riveste peraltro un grande valore parenetico. Eccone il testo, tradotto:

Fiera, sublime libertà

sorgente feconda di veri eroi

Tu ci hai reso l’uguaglianza

Compi la tua opera rendendola al mondo.

Popoli diversi!

spezzate le vostre catene

Date la pace all’universo

Provate la felicità suprema

che si gusta a vivere indipendenti!

strappate lo scettro ai tiranni

Strappate via il loro falso diadema!

Come, di despoti criminali

rimanete ancora schiavi?

Come, innalzate degli altari

a quelli che vi caricano di catene?

L’Uguaglianza,

la Libertà

vi renderanno la dignità.

Disprezzate la vigliacca impostura

di quel prete, fiero del suo rango

Quando si abbevera del vostro sangue

i suoi desideri oltraggiano la natura

Desideri deleteri!

Costumi corruttori!

Via! i popoli sono i vincitori.

Colma di benefici questi  popoli

discendi su di loro, o Libertà santa

Al tuo appello per sempre

si riuniranno sotto le tue ali

Ti seguiranno!

Ti adoreranno!

Ed i troni andranno in frantumi.

L’umanità, l’onore, la vita

sono per l’uomo un potente tesoro

ma il saggio preferisce ancora

la Libertà della sua patria

Popoli diversi!

spezzate le vostre catene

Date la pace all’universo

Soffermiamoci su un paio di concetti chiave: dopo l’appello ai popoli perché facciano come in Francia, prende vigore senza mediazione la denuncia di despoti criminali e di religiosi impostori, dai comportamenti contro natura «Ses voeux outragent la nature!». Seguono i troni che vanno in pezzi ed i popoli che vincono: la Libertà implica l’Uguaglianza.

E’ la ripresa corale del mito di Jean-Jacques Rousseau: una repubblica di liberi ed uguali.

Il Passo di Carica repubblicano è un canto di guerra, un ritmo d’assalto. Pensiamo alle armate di sanculotti che sbaragliano quelle dei soldati della prima coalizione a Tourcoing nel maggio del 1794  ed abbiamo una lontana idea della potenza dell’impeto dei rivoluzionari dell’anno II:

Cittadino, soldato, il nostro nemico ci minaccia

marciamo al passo che l’Uguaglianza ci traccia

per conservare i nostri diritti

soffrire è poco!

Non più catene

non più schiavi

Bisogna vincere o morire!

Schiacciamo l’orgoglio sotto i nostri piedi

che i re siano le nostre vittime!

Apriamo il vasto sepolcro

che i loro crimini hanno scavato

Marciamo, colpiamo, raddoppiamo la nostra audacia

Nessuna pietà, niente misericordia

la Libertà ci guida

e marcia con noi

Distruggiamo i tiranni

che cadano sotto i nostri colpi

che periscano, periscano,

periscano sotto i nostri colpi!

Non conosciamo – allo stadio attuale della ricerca – gli autori dei testi in francese, che qui fornisco tradotti, e che la Bibliothèque Nationale de France dà per anonimi, come altri canti di Cambini (salvo l’Ode sur nos victoires, il cui autore è  Antoine Vincent Arnault).

Qualche traccia per identificare l’ispiratore, se non l’autore, possiamo però seguirla. Vengono in mente le parole del solito Bertrand Barère de Vieuzac, deputato alla Convenzione, il sodale di Robespierre almeno fino a Termidoro (quando gli si rivoltò contro, facendolo ghigliottinare): «Les royalistes veulent du sang. Eh bien! ils auront celui des conspirateurs, de Brissot et de Marie-Antoinette … Ils l’auront, organisé par l’armée révolutionnaire qui selon le mot de la Commune de Paris mettra la Terreur à l’ordre du jour» («I realisti vogliono il sangue? L’avranno: quello dei cospiratori, di Brissot e di Maria Antonietta. L’avranno, organizzato dall’Armata Rivoluzionaria, che, secondo la parola d’ordine della Comune di Parigi metterà il Terrore all’ordine del giorno»). E’ un’atmosfera che turba, specialmente se ci soffermiamo un attimo a riflettere sul Girotondo repubblicano. Merita ricordare che i girotondi venivano spesso inscenati attorno alla ghigliottina:

La Francia era la nutrice

di grandi, preti e re

che del popolo, troppo alla buona,

avevano usurpato tutti i diritti

Ma un bel giorno, stanco di questi traditori

il popolo – facendo il suo dovere –

non volle più avere né grandi, né preti né re

e recuperò la libertà, la moralità e l’allegria

I re, i preti se n’ebbero a male

ma il popolo si mantenne saldo

i tiranni tramarono

minacciandoci coi loro cannoni

ma per combattere tutti questi traditori

il popolo intero si riunì

sistemò alla svelta grandi, preti e re

e conservò la sua libertà, la moralità e l’allegria

Popoli che ci fate la guerra –

ma quando aprirete gli occhi?

Il vostro sangue arrossa la terra

per dei despoti odiosi!

L’uomo non può aver padroni

non deve degradarsi!

Cacciate dunque senza tardare

i vostri grandi, re e preti

e recuperate la libertà, la moralità e l’allegria

Siamo su un piano, come dire, popolaresco, non senza venature sinistre, giacché non è difficile immaginare un girotondo, cantato danzando attorno a madame Guillotine. Il testo è comunque meno banale di quanto potrebbe sembrare ad una prima impressione. La libertà è dono di natura; l’uguaglianza ne è la garante; la virtù ne è razionalmente il prodotto finale. Del tutto inequivocabile infine l’ispirazione contro i due stati, cioè le due classi dominanti, nobiltà e clero. Sottolineerei peraltro, oltre la indicazione del recupero della libertà, ça va sans dire, quello del nuovo concetto della allegria, , assente in genere nella letteratura poetica rivoluzionaria. Non è così invece per il concetto di moeurs: sono i costumi, la moralità. Nobiltà e clero hanno corrotto la moralità del popolo, per questo vanno distrutte, come classe sociale, per riportare il popolo su linee di comportamento dignitose. C’è l’eco qui della rivolta delle vittime del libertinismo nobiliare ed ecclesiastico, quello che avrebbe portato Donatien De Sade, il Divin Marchese corruttore di giovani d’entrami i sessi, di nuovo in galera, dopo che la Rivoluzione l’aveva liberato.

Voglio concludere accennando ad altri due Inni, all’Uguaglianza ed alla Virtù.  Come già la Libertà, l’Uguaglianza diviene una sorta di divinità: «Reine sans faste et sans parure» (Regina senza fasto e senza corona).  C’è un passaggio in cui si avverte un’eco: quello della liberazione degli schiavi, in particolare, negri (« [l’homme] devient injuste barbare – Aux seuls esclaves libéral »). Proprio a quell’epoca era stata proposta dal mèntore di Cambini, Bertrand Barère de Vieuzac, commissario all’istruzione e la propaganda del Comitato di salute pubblica, la liberazione degli schiavi negri delle colonie, che ad Haiti avrebbe comunque avuto bisogno, per concretizzarsi, della rivolta capitanata da Toussaint-L’Ouverture qualche anno dopo:

Lontan da te il mortale si sperde

non insegue che una fatale inclinazione

diventa un ingiusto barbaro

liberale solo con gli schiavi

La stessa virtù, questo bene supremo,

sembra dispiacere a quell’orgoglio estremo

che non ammette che l’uomo sia uguale all’uomo

«Semble déplaire à cet orgueil extrême»:  l’orgoglio. L’avevamo già visto anzi udito rammentare nel  Girotondo repubblicano: «Foulons à nos pieds l’orgueil – que les rois soient nos victimes» (Mettiamoci sotto i piedi l’orgoglio, e che i re sian le nostre vittime!). Attenzione: qui l’orgoglio non è una disposizione d’animo. E’una classe sociale, quella che nei fabliauxmedievali si chiama courtoisie, cortesia. Sono i nobili che oltraggiano la natura con la loro stessa esistenza e così facendo complicano la vita della natura stessa. Al contrario, l’eguaglianza è semplificazione dei rapporti sociali: «tu [Égalité] sauras… gouverner l’univers par ta simplicité» (tu, Uguaglianza, saprai governare l’universo con la tua semplicità)

Coronamento delle due nuove divinità Libertà ed Uguaglianza sarà la Virtù cui viene dedicato l’inno più filosofico, più astratto, quello che prelude all’elevazione del Pantheon dell’Essere supremo, nella opera di distruzione dei capisaldi ideologici tanto laici che cattolici del sistema nobiliare dell’Ancien Régime:

Lungi da noi preti, insulsi figli dell’impostura,

voi che facevate del cielo un commercio insolente

Secondo voi, i misfatti divenivano legittimi

quando l’empio deponeva ai vostri piedi i suoi tesori

prezzo a cui i vostri tre dèi perdonavano tutti i crimini

ed il ricco viveva al riparo dai rimorsi!

Sparite, perversi! la luce divina

viene a toglierci il sigillo dagli occhi

Il dio che sarà invocato sarà l’Essere supremo, quello invocato ed adorato da Robespierre, il cui fastoso culto, organizzato dal Barère nel luglio 1794, assumerà aspetti grotteschi, da cui Barère stesso si distaccherà, quando si tratterà di organizzare Termidoro, in quello stesso mese. Beffarda storia: il culto dell’Essere supremo comportava una serie di feste rivoluzionarie. L’ultima di esse, quella dei due giovani martiri Bara e Viala, due adolescenti dodicenni trucidati dai realisti, fu celebrata il 10 termidoro, ma solo in provincia. L’ode musicata da Cambini non fu ascoltata a Parigi: Robespierre era caduto il 9 termidoro (27 luglio 1794), il giorno prima.

Pardo Fornaciari

 

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